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Asinara

Asinara

Estesa, è estesa.
Selvaggia, è selvaggia.
Personalità, ne ha da vendere.
Graffiante, lo è di sua natura.
Di Storia, quella grande con la maiuscola e quella più nostra, nazionale, questa isola ne trabocca.
Si arriva con la piccola nave che garantisce i collegamenti con il Sassarese e da lontano già si vedono le sagome degli edifici stile coloniale che ci ricordano che Asinara è stata sede di carceri, quarantene, confinamenti, prigionia di guerra, vicende strazianti.
Il richiamo immediato è quello del film Papillon, quando lui e Degas arrivano alla Cayenne, il territorio equatoriale oltremare destinato a prigione, un luogo lontano da Dio e dagli uomini. La sensazione è questa, di un’isola ostile, aspra, respingente.
In realtà, l’Asinara mostra sé stessa quasi come dovesse scontare la sua storia, il suo destino di isola ai margini, di isola di quarantene, ancorchè incredibilmente bella.

La casa del governo, ora sede direzionale del parco dell’Asinara

L’arrivo a Cala Reale è in effetti da film. Edifici di fine ottocento che parlano di sanità marittima, di prigionieri magiari e balcanici della Prima Guerra confinati qui a finirsi di malattie e consumarsi di struggimenti.

Sanità marittima del primo novecento

Il supercarcere è a molti km più avanti, molti. Non sarà agevole arrivarci, raggiungere il villaggio ormai spopolato, in cui l’unica casa che appare moderna è quella che fu di due Magistrati simbolo della Repubblica che qui nel 1985 redigerono la loro requisitoria nel maxiprocesso di Palermo.
Si arriva al villaggio dopo molti km in bici lungo l’unica strada pavimentata (in cemento) che si snoda quasi per caso, come fosse indifferente alle fatiche di chi vi si avventura, in mezzo ai piccoli asinelli bianchi e case coloniche diroccate, edifici in rovina, distaccamenti carcerari semicrollati, saliscendi durissimi per i non allenati.

Tortuosa e panoramica, la strada per Cala d’Oliva

 

Cala d’Oliva

Arrivati finalmente a Cala d’Oliva, dopo le ultime curve che lambiscono baiette che altrove sarebbero da cartolina e anche di più, i viaggiatori sono attesi dalla vecchia foresteria delle guardie carcerarie che ora è un ostello ed anche unico centro di accoglienza sull’isola.  Detto senza ironia, una gemma.
Per chi ha fatto la naja, è un ritorno alle origini. Si dorme in camerata, brande incastellate, bagno unico, sala mensa che più scarna non si può. Ma ottima cucina, quella che ci vuole.
Di fianco l’ostello, si trova il piccolo vecchio cimitero dell’isola, da cui si trae una rasoiata nel diciannovesimo secolo, leggendone le lapidi.
La sera, i mufloni si avvicinano sin alle scale di ingresso, per nulla intimoriti dalle creature bipedi. A cena, si fa conoscenza con i vicini di branda, si scambiano le esperienze e le sensazioni sull’isola. Vi sono dei trekkers, agguerriti mountain-bikers, miscellanea di appassionati , apneisti e subacquei vari, bird-watchers, altra gente capitata lì per caso o per errore, avendo mancato la parte di Sardegna che pensava di trovare.
La mattina si parte presto per l’esplorazione, se è estate la temperatura sale rapidamente, ci vuole molta acqua nello zaino. Quelli con la mountain-bike si muovono subito in salita, sembrano posseduti da strani demoni, perchè le mulattiere sono veramente dure.
L’isola è cattiva, si vede che proprio non ti vuole. Parafrasando un famoso film di fantascienza, la sua ostilità è pari solo alla sua bellezza, al suo fascino.
Gli arbusti sono infestati dalle zecche, tutto urticante, non c’è anima viva per cui è meglio muoversi in tanti: se hai un problema, qualcuno può prendersi cura di te. Se presso una curva della strada (strada!? Scherziamo?) avverti rumori di un qualcosa che si muove pesante, preparati…. possono essere fior di cinghiali.
La mulattiera verso nord, verso il faro abbandonato, costeggia spiagge meravigliose, inavvicinabili perchè in zona protetta. Una vecchia torre che doveva avvistare in pirati saraceni serve da punto di riferimento ed ora, meno solennemente, da ombra.
La punta nord di Asinara è la fine della Sardegna a ovest, oltre vi è solo il Golfo del Leone, il più tempestoso del Mediterraneo. E si vede che qui le tempeste sono di casa.
Un tuffo in mare, in mezzo a scogli aguzzi e qualche medusa, è un ristoro e dà un senso a quella solitudine di superficie: mai solo in quel mare, a due metri sotto. C’è un mondo, che non ti respinge.
Ogni giorno su quest’isola è così: Storia e storie che si rincorrono, il 41bis e ciò che ne rimane, l’abbandono degli uomini ma non della natura, l’orgoglio della macchia mediterranea e di un mare instancabile, insenature che sfidano l’esotismo di mete turistiche ad altre latitudini.
Imbarcando, al rientro verso Porto Torres sullo scalcagnato ferry che trasporta qualche furgone indietro dall’isola, si guarda indietro e ci si scava dentro, riflettendo sulle sensazioni e impressioni
raccolte nei giorni all’avventura sull’isola.
Sembra la scena finale della “Sottile linea rossa”, ti senti come il marine che cerca una ragion d’essere nei sui destini,  dibattuto tra una natura energica, scorbutica e le vicende secolari degli uomini.
E mentre l’isola lentamente si allontana, emerge forte il sentimento di ammirazione e riconosczenza per quei ragazzi che, con passione ed amore per la loro terra, tengono in piedi e gestiscono il centro turistico e di accoglienza che ci ha ospitato e che ci ha fatto sentire viaggiatori dell’Asinara.

Per non dimenticare